lunedì 18 febbraio 2013

Gallinari, come nasce una vera stella

Dolcemente complicata, piena di emozioni, contratti milionari (in dollari), i riflettori sempre accesi in impianti da sogno costantemente quasi "sold out", con gare entusiasmanti giocate su parquet super, giornalisti, tv, filmati e interviste tutti i giorni. La facciata visibile dell'Nba è fatta di basket e stelle che brillano ma, come per la luna, c'è anche una faccia nascosta visibile solo vivendola dal di dentro, da chi riesce a scostare la tendina che apre le "quinte". E allora si vedono la fatica, il sudore da spendere per emergere nella competizione, i tanti viaggi su e giù per gli States, la necessità di regolarsi e controllarsi, nel pubblico ma soprattutto nel privato, per gestire nel modo migliore ogni istante della giornata. È dal 2008 che Danilo Gallinari è entrato nel giro della Nba, un salto mica da ridere per chi arriva da Lodi, che grazie anche al supporto della famiglia ha imparato ad amministrare migliorando costantemente le proprie prestazioni, dai Knicks ai Nuggets, fino a entrare nella lista dei papabili all'Ali Star Game. Quello vero, a fianco di Kobe e "KD", contro Le-bron: il "Rookie challenge" l'ha giocato nel 2010. A testimoniare la bravura di Danilo e il rispetto che ha saputo progressivamente conquistare tra i "big" è la risposta di Kevin Garnett a una precisa domanda su Gallinari e Denver al termine della sfida vinta dai Celtics sui Nuggets dopo tre supplementari, domenica scorsa. «Someo-ne told me that the Nuggets don't have an Ali-Star and that baffles me. Danilo Galli-nari, Ty Lawson are really good players. The league need to check itself about (ali-star) personnel. The young guy with the dre-ds (Faried) is playing great basketball. They have guys who deserve to be on that team» Che per i non anglofoni suona così: «Mi dicono che i Nuggets non ha All Star e questo mi fa sorridere. Danilo Gallinari, Ty Lawson sono davvero buoni giocatori. L'Nba deve riflettere sulle scelte per l'All Star Game. Il ragazzo con le treccine (Faried) sta giocando un grande basket. Hanno giocatori che meritano quel palcoscenico». Come sottolinea l'amico Mark Murphy del "Boston Herald", dal 1988 al seguito dei Celtics, il commento di "KG" acquista maggiore valore se si pensa che la stella di Boston (16° giocatore Nba a superare il muro dei 25.000 punti: traguardo tagliato proprio contro Gallinari e i Nuggets) non parla mai bene degli avversari. Un tipo tosto come KG, deciso insieme a "the captain and the truth" (capitano e verità) Paul Pierce a non stringere più la mano a Ray Alien, considerato un "traditore" perché passato a Miami la scorsa estate, avrebbe convocato il "Gallo" alla partita delle stelle giocata stamattina presto (fuso italiano) a Houston. E Danilo come l'ha presa? «Mi fa molto piacere, ma compreso il funzionamento del meccanismo non mi sono fatto grandi illusioni da subito. Mi prendo quindi qualche giorno di pausa, niente allenamenti, da passare a New York». Una breve parentesi anticipata da una fastidiosa influenza che, dopo essersi manifestata a Boston, l'ha costretto a saltare il "back to back" di martedì e mercoledì scorsi (Raptors e Nets). Ecco una parte della faccia nascosta dell'Nba: Danilo ha beneficiato della presenza di mamma Marilisa, con lui da prima di Natale. Non è solo una questione di mangiare, Marilisa è super anche in questo: avere un supporto familiare è fondamentale per affrontare le fatiche della stagione. «Sono contento di averla a casa e poter scambiare quattro chiacchiere quando ritorno da gare o allenamenti. Avere vicino i propri familiari è fondamentale. Papà (Vittorio Gallinari, ndr) viene con me un mesetto a Denver a inizio stagione e per Natale con la mamma e mio fratello Federico, che poi riporta in Italia per la scuola. Rimango con la mamma fino a marzo. Ci sono certi momenti in cui preferisco stare da solo, ma sto molto bene con la mia famiglia: parliamo di tutto».
Tra allenamenti, partite, viaggi ed eventi come si governano i tempi di riposo nell'Nba?
«Ce ne sono pochi e bisogna prenderseli tutti. Non faccio nulla di particolare. Prima della partita mi rilasso, cerco di stare tranquillo. A volte c'è allenamento e partita nello stesso giorno, allora in palestra, oltre a seguire la seduta diretta dai coach cerchi di prenderti cura del tuo corpo lavorando con esercizi specifici su particolari debolezze: è importante pensare a se stessi e curare il proprio stato di forma».
 Un conto è regolare i ritmi quando da casa al "Pepsi Center" ci sono cinque minuti di auto: cosa fai quando siete "on the road"?
«Cerco di riposare un po' in aereo. Quando siamo in trasferta partiamo solitamente verso le 3 dopo l'allenamento mangiando qualcosa al volo al "Pepsi". In albergo cerco di distendermi, ognuno di noi ha una camera singola, e poi esco a cena: mi piace girare le città dove giochiamo. Restrizioni? Nessuna, ognuno può fare e mangiare quello che vuole. Sei un professionista, essere "performante" è una tua diretta responsabilità. Con il club firmi solo il contratto, tutto il testo è tutto e solo nelle tue mani».
Orari?
«Anche qui sta a te gestirti con intelligenza e attenzione. Ci sono compagni che possono tornare alle 6 di mattina e in partita corrono come matti: lo facessi io, vedrei tre canestri. Ognuno ha le sue abitudini consolidate. Dopo la partita, per esempio, fatico molto ad addormentarmi, l'adrenalina continua a scorrere». Tutto diverso dall'Italia...
«Nba ed Europa sono due mondi diversi. Quando torno per la Nazionale mi piace rivivere i tempi e i modi dei primi raduni. Tutti in divisa, in camera in coppia, a cena insieme e nessuno che si alza prima che tutti abbiano finito. Ai Nuggets può capitare di mangiare con la squadra, magari se siamo in trasferta». Quest'anno il calendario ne ha proposte parecchie trasferte, soprattutto all'inizio. È stata dura?
 «Ben 22 partite delle prime 32 le abbiamo giocate fuori: è la prima volta nella storia dei Nuggets e la seconda volta che capita nelfNba. I "back to back"? Questi sono più complicati da gestire, c'è stress, devi trovare energie mentali, non solo fisiche: lo stesso vale quando ne giochi tante di fila in trasferta nel giro di pochi giorni. Quest'anno è capitato diverse volte».
Come viaggiate?
 «I Nuggets affittano in esclusiva un aereo della Delta. I Knicks hanno un aereo di proprietà, una cosa incredibile: il menu cambiava a ogni viaggio. Il check-in? In trasferta lo facciamo direttamente al palazzetto». Cosa si mette in valigia per il viaggio?
 «Il minimo indispensabile se si sta via poco, un borsone grosso se la trasferta dura più giorni».
 Città preferita? 
«Sono cinque nella mia lista: New York, Miami, Los Angeles, San Francisco e Toronto».
Ristoranti?
«A Denver frequento Parisi e il Sushi Den, a me e la mamma piace molto il sushi, oppure il Fogo de Chao, per cibo dal sapore brasiliano. A New York vado da Uva o al Via Della Pace. In trasferta? Solitamente mi organizzo per tempo chiamando magari qualche amico. I tifosi? A Denver salutano e basta, a New York sono più il rapporto è più intenso. Anche in altre città mi riconoscono: in generale c'è sempre molto rispetto». E il rapporto con i media? 
«Va tutto bene anche con i giornalisti. A Denver è molto diverso rispetto a New York, dove a ogni allenamento si presentavano in venti o venticinque: al "Pepsi Center" ne vengono un paio. È differente anche la situazione. A New York "scavano" più nel resto che sulla partita. Obblighi? Nessuno che io sappia: è nella cultura Nba dare la massima disponibilità ai giornalisti. Le interviste sono fatte di persona, mai al telefono, come invece accade in Italia. Silenzio stampa? Non esiste, al massimo alla domanda puoi dire "next question, please" (la prossima per favore, ndr), significando la tua volontà di non rispondere. Ai Knicks sedevo di fianco a Marbury che a ogni intervista diceva "next question". Io? Mai detto in vita mia».
Com'è il tempo libero a Denver? 
«Organizzo gite nel Colorado, vedo amici, giro in città, guardo film, leggo e uso il pc. Ora c'è la "fase" delle serie televisive. Oppure gioco a carte». Un'intensa e combattuta partita a scopa d'assi è lo "scarico" dopopartita utilizzato da Danilo per festeggiare il "canestro del secolo", poi ridotto a quello "dell'anno", realizzato nella gara interna con i Bucks salutato con un boato mai sentito al "Pepsi Center." «I tifosi pensavano ai "tacos" in omaggio (destinato ai possessori del biglietto quando i Nuggets firmano almeno 110 punti: punteggio raggiunto con il centro di Danilo, ndr), quando giochi tanto tiri così possono capitare. I telecronisti di Denver sono stati buoni nella loro definizione. È comunque stato bello e molto importante in un momento particolare della gara». Le ultime due sconfitte prima dell"All Star Break" hanno riportato i Nuggets al quinto posto della West Conference, appena dietro Memphis, ma non cambiano il giudizio estremamente positivo della squadra di Gorge Karl. «Ne abbiamo giocate tante fuori casa, dove siamo andati bene nel complesso, possiamo ancora sfruttare il fattore "Pepsi Center" per migliorare la classifica. Il gruppo è bello e sta diventando forte, io mi trovo alla grande. La stagione è ancora lunga, ora siamo a circa metà: non dobbiamo perdere le nostre caratteristiche peculiari e continuare a giocare forte». La corsa ai play off riprende domani. I Nuggets ospitano i Celtics: Danilo ha un'altra opportunità per dimostrare che "KG" ha ragione. Luca Mallamaci

Da "Il Cittadino" del 18 Febbraio 2013, pag. 34

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